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Maria Pia Aquilanti Ingala
9 - 30 ottobre 2021
Questa è una di quelle occasioni nelle quali vorrei che le mie abilità comprendessero una estesa competenza critica nell’ambito delle arti figurative. Con questo non voglio dire di essere un ingenuo sprovveduto, e tentare così di farmi perdonare qualche affermazione incongrua. Dico invece che, di fronte alle opere della mia carissima amica Maria Pia, vorrei che il mio discorso avesse l’autorità necessaria per illustrarne il fascino e l’altissima qualità, senza essere accusato di stravedere a causa dell’affetto che nutro per l’autrice. Metterò perciò da parte la mia conoscenza di lei, e cercherò di vedere i suoi lavori come se fossero fatti da uno sconosciuto. La mia analisi farà affidamento sulla mia esperienza pratica nel lavoro dell’arte. Non tanto nel giudizio sull’arte. Il lavoro per l’arte, l’applicazione seria e perseverante nel modificare la materia per imporre una forma dettata dall’intelletto all’oggetto che si va elaborando, è raramente oggetto di attenzione da parte di coloro che si dedicano a spiegare l’opera degli artisti. Ho sentito rarissimamente commentare la fatica fisica che ha comportato un’opera. Nella mia esperienza, quando ho brevemente avviato il discorso sul numero dei colpi di scalpello che avevo dovuto assestare ad un blocco per fare una scultura, ho sempre ottenuto un distratto sorriso di condiscendenza, mentre l’attenzione del mio interlocutore migrava rapidamente ad argomenti più elevati quali “armonia”, ”espressione”, ”equilibrio”. Delle mie decine di migliaia di scalpellate, nessuno, o pochissimi, hanno mostrato di interessarsi. Ma io so che, una volta ideato il lavoro, una volta impostato il progetto, è l’impegno fisico, la meditata, attenta opera del corpo dell’artista, che lo realizza. Per il mio carattere, sono portato ad apprezzare il modo di procedere mirabilmente espresso da Michelangelo che individua come supremo strumento dell’artista, “… la mano che ubbidisce all’intelletto”. Certo che c’è dell’impegno fisico anche da parte di chi scaglia il colore a secchiate, o di chi lo fa sgocciolare, o affonda sapienti rasoiate alla tela. Arrivo forse, con un certo sforzo, a riconoscere che questi o simili gesti possiedono una certa curiosa attrattiva. Però io trovo in un gesto più guidato la mia soddisfacente modalità operativa. Ebbene, nei lavori di Maria Pia ritrovo l’impegno continuamente guidato dall’attento controllo intellettuale che fa corrispondere il risultato alla volontà di fare esattamente quello che si vuole nel momento in cui si opera. Ho avuto modo di osservare…e rinuncio volutamente al verbo “ammirare”, che mi sarebbe venuto spontaneo, un buon numero di opere, il cui rigoroso impianto formale mi ha veramente impressionato. Se fossi un critico professionale, scaverei nel mio bagaglio di conoscenze per individuare paragoni, derivazioni, appartenenze a scuole, e sarei sicuro di poter indicare un ricco campionario di artisti dei quali questi lavori raccolgono il testimone. Ma voglio, da semplice compagno di viaggio di Maria Pia nel mondo dell’espressione artistica, limitarmi alla meditazione estatica di fronte ai suoi lavori. Ed è sicuramente questo atteggiamento che è più utile per godere in pieno l’invito gentile ma energico che si percepisce al primo impatto con questa poderosa eruzione di materia artistica. E’ l’invito che si riceve se ci si ferma a meditare sulle trame strutturali dei tessuti organici come le cortecce degli alberi, le epidermidi degli animali, le tessiture delle rocce. E dico “se ci si ferma”, perché non tanti si pongono con attenzione ad osservare ciò che appare irrilevante perché troppo comune e scontato, come il dorso o il palmo della propria mano, come i segni dell’arnese del muratore sulle pietre di un muro, come la grana della buccia di un frutto. I lavori di Maria Pia, con leggerezza, senza prepotenza, invitano a meditare sulla struttura della materia, che è costituita dall’aggregarsi necessario e multiforme di elementi piccoli. E la meditazione può procedere inabissandosi a pensare ad elementi costituenti sempre più piccoli, fino alle dimensioni cellulari, molecolari, atomiche, subatomiche. Ma l’innesco di questa meravigliosa immersione nel reale, deve essere prodotto dalla comparsa di un elemento che, pur piccolissimo, cada con tutta evidenza sotto i sensi dell’osservatore. Deve essere un elemento con un suo carattere, con una sua carica cromatica, con un suo volume, con una sua forma che ne faccia cosa molto simile agli altri elementi, ma unica e irripetibile. E’ quel che avviene in natura, dove gli individui di una stessa specie somigliano a tutti gli altri, ma non esistono, né sono mai esistiti, né mai esisteranno due identici. Come elemento generatore di forme, Maria Pia ha scelto il punto. La parola, così usuale, nasce, nella nostra lingua, dalla traccia che lasciava sulla tavoletta cerata, lo stilo con il quale scrivevano gli antichi, il “punctum”, la puntura, come diremmo noi. Si tratta del segno che rappresenta materialmente quell’elemento geometrico che Euclide definisce “ciò che non ha parti”. Ma quell’elemento esista solo come astrazione intellettuale. Noi esseri materiali, se vogliamo disegnare, dobbiamo materializzarlo con un tocco di matita che lasci sulla carta almeno un po’ di grafite. La scelta di Mariella ha privilegiato un punto depositato da un pennello affilato, che lascia sulla superficie una macchia elementare. E noi vediamo miriadi di macchie simili ma mai identiche, che si aggregano in strutture organiche, che mimano e suggeriscono forme che potremmo vedere, se guardassimo, in infinite proposte della realtà che ci costituisce e che ci circonda. Questo procedere con perseveranza analitica e rigore sintetico desta meraviglia e rispetto per la dedizione umile e infaticabile necessaria alla realizzazione dei concetti estetici di queste sorprendenti opere. Sono sicuro che se parlo a Maria Pia delle centinaia di migliaia di colpi di scalpello che impiego per fare i miei lavori, lei mi starà a sentire senza superficiale condiscendenza. Lei sa che cosa voglio dire. Anche per questa affinità, sono un suo ammiratore e le voglio molto bene.
Flavio Leoni
Questa è una di quelle occasioni nelle quali vorrei che le mie abilità comprendessero una estesa competenza critica nell’ambito delle arti figurative. Con questo non voglio dire di essere un ingenuo sprovveduto, e tentare così di farmi perdonare qualche affermazione incongrua. Dico invece che, di fronte alle opere della mia carissima amica Maria Pia, vorrei che il mio discorso avesse l’autorità necessaria per illustrarne il fascino e l’altissima qualità, senza essere accusato di stravedere a causa dell’affetto che nutro per l’autrice. Metterò perciò da parte la mia conoscenza di lei, e cercherò di vedere i suoi lavori come se fossero fatti da uno sconosciuto. La mia analisi farà affidamento sulla mia esperienza pratica nel lavoro dell’arte. Non tanto nel giudizio sull’arte. Il lavoro per l’arte, l’applicazione seria e perseverante nel modificare la materia per imporre una forma dettata dall’intelletto all’oggetto che si va elaborando, è raramente oggetto di attenzione da parte di coloro che si dedicano a spiegare l’opera degli artisti. Ho sentito rarissimamente commentare la fatica fisica che ha comportato un’opera. Nella mia esperienza, quando ho brevemente avviato il discorso sul numero dei colpi di scalpello che avevo dovuto assestare ad un blocco per fare una scultura, ho sempre ottenuto un distratto sorriso di condiscendenza, mentre l’attenzione del mio interlocutore migrava rapidamente ad argomenti più elevati quali “armonia”, ”espressione”, ”equilibrio”. Delle mie decine di migliaia di scalpellate, nessuno, o pochissimi, hanno mostrato di interessarsi. Ma io so che, una volta ideato il lavoro, una volta impostato il progetto, è l’impegno fisico, la meditata, attenta opera del corpo dell’artista, che lo realizza. Per il mio carattere, sono portato ad apprezzare il modo di procedere mirabilmente espresso da Michelangelo che individua come supremo strumento dell’artista, “… la mano che ubbidisce all’intelletto”. Certo che c’è dell’impegno fisico anche da parte di chi scaglia il colore a secchiate, o di chi lo fa sgocciolare, o affonda sapienti rasoiate alla tela. Arrivo forse, con un certo sforzo, a riconoscere che questi o simili gesti possiedono una certa curiosa attrattiva. Però io trovo in un gesto più guidato la mia soddisfacente modalità operativa. Ebbene, nei lavori di Maria Pia ritrovo l’impegno continuamente guidato dall’attento controllo intellettuale che fa corrispondere il risultato alla volontà di fare esattamente quello che si vuole nel momento in cui si opera. Ho avuto modo di osservare…e rinuncio volutamente al verbo “ammirare”, che mi sarebbe venuto spontaneo, un buon numero di opere, il cui rigoroso impianto formale mi ha veramente impressionato. Se fossi un critico professionale, scaverei nel mio bagaglio di conoscenze per individuare paragoni, derivazioni, appartenenze a scuole, e sarei sicuro di poter indicare un ricco campionario di artisti dei quali questi lavori raccolgono il testimone. Ma voglio, da semplice compagno di viaggio di Maria Pia nel mondo dell’espressione artistica, limitarmi alla meditazione estatica di fronte ai suoi lavori. Ed è sicuramente questo atteggiamento che è più utile per godere in pieno l’invito gentile ma energico che si percepisce al primo impatto con questa poderosa eruzione di materia artistica. E’ l’invito che si riceve se ci si ferma a meditare sulle trame strutturali dei tessuti organici come le cortecce degli alberi, le epidermidi degli animali, le tessiture delle rocce. E dico “se ci si ferma”, perché non tanti si pongono con attenzione ad osservare ciò che appare irrilevante perché troppo comune e scontato, come il dorso o il palmo della propria mano, come i segni dell’arnese del muratore sulle pietre di un muro, come la grana della buccia di un frutto. I lavori di Maria Pia, con leggerezza, senza prepotenza, invitano a meditare sulla struttura della materia, che è costituita dall’aggregarsi necessario e multiforme di elementi piccoli. E la meditazione può procedere inabissandosi a pensare ad elementi costituenti sempre più piccoli, fino alle dimensioni cellulari, molecolari, atomiche, subatomiche. Ma l’innesco di questa meravigliosa immersione nel reale, deve essere prodotto dalla comparsa di un elemento che, pur piccolissimo, cada con tutta evidenza sotto i sensi dell’osservatore. Deve essere un elemento con un suo carattere, con una sua carica cromatica, con un suo volume, con una sua forma che ne faccia cosa molto simile agli altri elementi, ma unica e irripetibile. E’ quel che avviene in natura, dove gli individui di una stessa specie somigliano a tutti gli altri, ma non esistono, né sono mai esistiti, né mai esisteranno due identici. Come elemento generatore di forme, Maria Pia ha scelto il punto. La parola, così usuale, nasce, nella nostra lingua, dalla traccia che lasciava sulla tavoletta cerata, lo stilo con il quale scrivevano gli antichi, il “punctum”, la puntura, come diremmo noi. Si tratta del segno che rappresenta materialmente quell’elemento geometrico che Euclide definisce “ciò che non ha parti”. Ma quell’elemento esista solo come astrazione intellettuale. Noi esseri materiali, se vogliamo disegnare, dobbiamo materializzarlo con un tocco di matita che lasci sulla carta almeno un po’ di grafite. La scelta di Mariella ha privilegiato un punto depositato da un pennello affilato, che lascia sulla superficie una macchia elementare. E noi vediamo miriadi di macchie simili ma mai identiche, che si aggregano in strutture organiche, che mimano e suggeriscono forme che potremmo vedere, se guardassimo, in infinite proposte della realtà che ci costituisce e che ci circonda. Questo procedere con perseveranza analitica e rigore sintetico desta meraviglia e rispetto per la dedizione umile e infaticabile necessaria alla realizzazione dei concetti estetici di queste sorprendenti opere. Sono sicuro che se parlo a Maria Pia delle centinaia di migliaia di colpi di scalpello che impiego per fare i miei lavori, lei mi starà a sentire senza superficiale condiscendenza. Lei sa che cosa voglio dire. Anche per questa affinità, sono un suo ammiratore e le voglio molto bene.
Flavio Leoni