Difficile non percepire immediatamente quanto le opere di Alberto Cini siano profonde, quasi vertiginose, una vertigine data dalla presenza di molteplici livelli di senso, di tempo, di arte stratificati ed intrecciati in esse. Attraverso il recupero e il riutilizzo di antichi filati, frammenti di velluto, broccato, passamanerie in oro, od altri tessuti più vicini a noi nel tempo, come il ritaglio di una scenografia ormai dismessa, o addirittura parte di una vecchia tavolozza pittorica, Cini crea infatti dei crocevia temporali, dove opere ed epoche diverse si incontrano e dialogano, imparando a convivere ed anzi, dando luogo ad un accadimento artistico del tutto nuovo ed incredibilmente potente. Proprio qui si coglie la poetica concettuale dell’artista, ben esemplificata dal titolo scelto per questa raccolta, Tantra, parola che in sanscrito significa tessuto o intreccio appunto, ed a un livello più profondo esemplifica come nell’esperienza le identità non si sommino, ma si annullino e dunque si espandano. Viene meno quindi la funzione duchampiana, che non si sostituisce tuttavia con un’altra funzione, bensì genera qualcosa di nuovo: privandosi dell’identità, annullandosi a vicenda, le entità creano la novità. Non a caso, ad esempio, in ogni opera è voluto l’accostamento tra povero e prezioso, accostamento che eleva la dignità del povero e dona ad entrambi una nuova, seconda e più ricca esistenza. La manualità dell’artista sta poi nel comporre attorno a ciò che è dato, il frammento, un intreccio non solo legato alla materia, ma anche temporale e semantico, che faccia slittare così valori e significati. C’è una costante evocazione di storie, paesaggi, mondi, di ciò che lo spettatore vuole vedere nell’opera; l’opera è condivisione e l’arte è sostanzialmente interiorizzazione e mediazione.
Il recupero e la rielaborazione spaziano tra i materiali più svariati, dai frammenti di un antico gallone o di un pregiato tessuto persiano, a brandelli di tela, anche dipinta, o parti di datati indumenti; a volte compaiono gli strumenti stessi del dipingere, ormai dismessi, incastonati nell’opera, altre volte carte preziose, incise, stampate e poi ritagliate secondo la creatività dell’autore. Ogni frammento viene sapientemente recuperato, studiato, amato, e poi intessuto in una tela che segue il disegno dell’artista, ricomposto in un puzzle e rinato così a seconda esistenza. Questo gesto del recupero, oggi attuale quanto mai nelle sue valenze etiche ed estetiche, dà forma a mondi immaginifici in cui ogni elemento ha già un’esistenza autonoma, una storia da raccontare, più o meno recente che sia, alla quale si aggiunge l’ultima, quella che tutte le racchiude, quella a cui dà forma l’artista nel gesto stesso del creare e nella quale convivono tutte queste differenti narrazioni. Potremmo proprio interpretare così le opere di Cini: storie da narrare, incredibilmente trasversali e atemporali, artisticamente immortali. Ed infatti estrema rilevanza assume qui la scrittura, presente in numerosissimi lavori, che potrebbero quasi venire concepiti come atto grafico in sé. Proprio nell’opera scelta ad emblema della mostra, Lei, la parte grafica ha un’importanza fondamentale: la tela, anch’essa di recupero, divisa verticalmente da una stoffa d’epoca fissata con chiodi coevi, è riempita – eccetto che per un piccolo componimento di mano dell’autore – dagli appunti delle lezioni di storia dell’arte di una pedagogista, allora studentessa, dell’Ottocento. Si tratta quindi non solo di appunti d’arte, ma anche di appunti “di recupero”, che hanno una storia, e di questa storia rimangono sulla tela i segni materici: il colpo d’azzurro che si vede, ad esempio, è dato dall’inchiostro sciolto della penna stilografica di quei tempi. Sono opere espressioniste in cui c’è dentro tutto l’artista ed il mondo della scrittura che fa parte di lui; non a caso il percorso artistico di Cini si è “intrecciato” con quello altri importanti personaggi come Natalia Ginzburg, incontri tanto casuali, quanto pregni di significato, che hanno lasciato un segno indelebile e hanno plasmato irrimediabilmente la sua poetica. A riprova di ciò è il fatto che ogni opera è stata corredata da un haiku, composto in occasione della mostra: di origine giapponese, gli haiku sono componimenti di tre versi, che seguono una metrica ben precisa di unità vocali, legati l’uno all’altro, ma non consequenziali; sono immagini, poesie da cui scaturisce una sensazione non concettuale, razionale, non legata a un ragionamento, ma istintuale. È evidente dunque come l’opera è pertanto testimonianza di questa volontà specifica di unire la parola all’arte grafica.
Balza all’evidenza, dunque, il fil rouge che accomuna tutta la produzione artistica di Cini: c’è una sorta di trasversalità nel suo fare artistico, che accomuna tempi, luoghi, persone, storie diverse ma contemporanee, unendole nella loro attitudine all’universale. Sono incroci di tempo, che sono anche incroci di arte, di scelte e di pensieri, fusi, giocati, reinterpretati attraverso la poetica di un uomo dall’intelligenza tanto acuta quanto poliedrica. Ogni opera è un viaggio. Frammenti del passato si riaccendono e riprendono nuova vita diventando altro, sempre fedeli a se stessi, eppure diversi, riempiti di un significato nuovo, non privo di memoria. Ecco la genialità, una genialità sempre coerente, puntuale e mai banale, che dà vita ai mondi racchiusi nelle opere di Albero Cini.
Francesca Gualandi