Maria Norrito

Maria Norrito

“Maria Norrito non dipinge cose. Dipinge sé stessa, sempre, anche quando sembrerebbe il contrario.
Non intende rappresentare altro, né potrebbe interessarla l’esprimere una qualsivoglia visione del mondo. Quando dipinge, la Norrito vuole fare semplicemente ciò che farebbe se non lo facesse, vivere…
Tutto è trasfigurato, nelle opere della Norrito, non solo nelle sue immagini più esplicitamente oniriche, incantevoli nella loro franchezza di spirito, perchè vedere non serve più, si è già visto…
È arte, tutto ciò? È molto di più, direi, è vita che si fa arte. Ogni volta che si compie il rito, ogni volta, cioè, che si conduce il percorso fino in fondo, dall’interiorità della traccia originaria all’esteriorità dell’espressione, ogni volta che la pittura è capace di ridestare la scossa energetica dell’emozione prima…la Norrito può ben dire: io sono, perchè sento, riesco a connettermi con il mondo, al punto di poterlo inglobare in me stessa. Io vivo. E ci invita, la Norrito, a farci partecipi del suo stesso rinascere, a sentirci vivi anche noi, avvertendo empaticamente qualcosa del suo sentire per poterlo fare nostro, per poter condividere con esso l’emozione profonda dell’esistere. Noi siamo, perchè quel suo modo di percepire il mondo è fratello del nostro. E in esso, anche noi viviamo”.
Vittorio Sgarbi

Max Guarini – Street

Max Guarini – Street

In questa ricerca sul paesaggio urbano contemporaneo, è evidente come Guarini non ci proponga una semplice riproduzione del mondo reale, ma il suo fare artistico sia mosso da una precisa volontà di dare a questa riproduzione un significato: la metropoli diventa il luogo dell’identità e della memoria, lo specchio delle nostre emozioni. Sono immagini vissute tanto reali quanto poetiche, rielaborate poi attraverso la propria esperienza e la propria creatività, in un progetto artistico che, fondendo vissuto e fantasia, fa scaturire qualcosa di nuovo, ma comunque già presente nell’interiorità dello spettatore.
È così che queste tele dialogano con noi, presentandoci attimi di vita, tempo che scorre veloce fissato in un perfetto istante cristallizzato: scorci di strade, palazzi, panorami a noi noti e tuttavia rivisitati attraverso il filtro dell’interiorità e dei sentimenti; e ancora, volti rubati, mani, corpi che si stringono e si avvinghiamo, sconosciuti ma chissà perché così familiari. Ecco come Guarini riesce a rendere assolutamente non scontato qualcosa che è a noi vicino, illuminandolo sotto la lente di ingrandimento della sua pittura, lente che non distorce, ma focalizza, punta l’attenzione, dà risalto ed importanza a ciò che solo la sensibilità di un artista può cogliere.
La sua pittura è colore puro, in una tecnica moderna, veloce e istintiva, che incanta per le emozioni suscitate. La luce è sempre la protagonista, a volte crepuscolare, dolce e diffusa, a volte più concentrata e quasi prepotente: è lei che ci guida nella lettura di queste vedute cittadine, ognuna diversa, ognuna con una sua propria anima, ognuna con un messaggio da comunicare. Tutto risulta straordinariamente poetico: nel mondo di Guarini l’ordinario entra a far parte dello straordinario.
Francesca Gualandi

Severino Nanni

Severino Nanni

È subito evidente come l’opera di Severino Nanni sia attraversata da un’incessante sperimentazione: l’artista bolognese ha infatti da sempre inteso il suo percorso come una continua evoluzione verso nuove tecniche e nuovi materiali, che potessero fornirgli gli stimoli per far progredire il suo linguaggio artistico. Questa caparbia volontà di ricerca che si muove in diverse direzioni, confluisce sempre tuttavia in una produzione coerente, non scevra di toni del tutto originali. Importantissimo per Nanni è l’apprendistato con il maestro Pompilio Mandelli, grazie al quale impara ad equilibrare all’interno dell’economia compositiva dell’opera una gestualità del tutto istintuale. È palese come, sin dall’inizio della sua carriera, la sua produzione sia orientata a un espressionismo astratto: il gesto del pittore si concretizza in una stesura energica, che si muove in ogni direzione, i colori guizzano sulla tela, sovrapponendo differenti segni, motivi e strati materici. Evidente rimane, dietro a questa gestualità, la volontà di far emergere la propria esigenza interiore, che si risolve nella scelta della gamma cromatica, nel saper gestire i contrasti e dosare i rapporti di forza e complementarietà delle zone di colore.
Un’altra direzione esplorativa è per Nanni quella della spazialità, che lo porta a cercare sempre nuove vie per far uscire l’opera dai propri confini materici e connetterla a quelli del fruitore: ecco così che nelle sue tele compaiono oggetti concreti, brandelli di stoffa, stralci di differenti ed inusitati materiali, che invadono la superficie pittorica inserendosi nella composizione e divenendo ulteriori stimoli percettivi, rendendosi tramite e coinvolgendo così la realtà dello spettatore. In queste opere bi-tridimensionali dalla matericità quasi tattile, emerge pertanto il confronto tra opera d’arte e realtà: l’opera sconfina nel mondo reale e a sua volta l’oggetto concreto la invade con la sua accidentalità, connettendosi e riempiendosi vicendevolmente di significato. Segno e materia dunque hanno per Nanni un legame indissolubile, elementi rappresentativi ed allusivi dell’interiorità dell’artista: è il racconto di un vissuto che viene alla luce attraverso segni graffianti, geometrie scomposte e sprazzi di fulgido colore sulle quali è intessuto il contenuto della memoria.
Francesca Gualandi

Sergio Vacchi

Sergio Vacchi

La mostra celebra la pittura di Sergio Vacchi (Castenaso, 1925 – 2016), uno dei più originali ed indipendenti pittori del secondo dopoguerra. All’apice della notorietà negli anni Cinquanta e Sessanta, l’artista di origine bolognese ha elaborato, attraverso una pittura di grande e grandissimo formato, una personale e suggestiva concezione della realtà che lo circondava. Procedendo per cicli pittorici, ha dato vita a una realtà visionaria e profetica sul destino dell’essere umano in rapporto al pianeta: sono visioni cupe e desolate, ma non prive di ironia, accompagnate da una simbologia contemporanea evidentemente da interpretare, in cui lo spettatore può proiettare il proprio smarrimento, quanto la propria meraviglia, i propri dubbi, ansie, attese e speranze.
Francesca Gualandi

Marco Alberti

Marco Alberti

Life drawing, disegni di vita: ecco come Alberti definisce le proprie opere. Quando si ha a che fare con la realtà non è possibile mentire e per rappresentarla nel suo rigore, quanto nella sua complessità, bisogna entrarvi dentro, attraversarla, e, solo dopo averne acquisito esperienza, esprimerla: dipingere è un’esperienza ontologica dunque. Il volto si fa qui protagonista poiché è forse l’elemento anatomico primo, il più caratterizzante l’umanità. Sono istanti di vita rubati e poi raccontati allo spettatore, senza mai dunque perdere di vista l’obbiettivo finale: non restituire una realtà sterile, piatta, “fotografica”, ma una realtà poetica, evocativa, fatta di memoria ed emozioni e proprio per questo ancora più vera del vero.
Francesca Gualandi

Alberto Cini

Alberto Cini

Difficile non percepire immediatamente quanto le opere di Alberto Cini siano profonde, quasi vertiginose, una vertigine data dalla presenza di molteplici livelli di senso, di tempo, di arte stratificati ed intrecciati in esse. Attraverso il recupero e il riutilizzo di antichi filati, frammenti di velluto, broccato, passamanerie in oro, od altri tessuti più vicini a noi nel tempo, come il ritaglio di una scenografia ormai dismessa, o addirittura parte di una vecchia tavolozza pittorica, Cini crea infatti dei crocevia temporali, dove opere ed epoche diverse si incontrano e dialogano, imparando a convivere ed anzi, dando luogo ad un accadimento artistico del tutto nuovo ed incredibilmente potente. Proprio qui si coglie la poetica concettuale dell’artista, ben esemplificata dal titolo scelto per questa raccolta, Tantra, parola che in sanscrito significa tessuto o intreccio appunto, ed a un livello più profondo esemplifica come nell’esperienza le identità non si sommino, ma si annullino e dunque si espandano. Viene meno quindi la funzione duchampiana, che non si sostituisce tuttavia con un’altra funzione, bensì genera qualcosa di nuovo: privandosi dell’identità, annullandosi a vicenda, le entità creano la novità. Non a caso, ad esempio, in ogni opera è voluto l’accostamento tra povero e prezioso, accostamento che eleva la dignità del povero e dona ad entrambi una nuova, seconda e più ricca esistenza. La manualità dell’artista sta poi nel comporre attorno a ciò che è dato, il frammento, un intreccio non solo legato alla materia, ma anche temporale e semantico, che faccia slittare così valori e significati. C’è una costante evocazione di storie, paesaggi, mondi, di ciò che lo spettatore vuole vedere nell’opera; l’opera è condivisione e l’arte è sostanzialmente interiorizzazione e mediazione.
Il recupero e la rielaborazione spaziano tra i materiali più svariati, dai frammenti di un antico gallone o di un pregiato tessuto persiano, a brandelli di tela, anche dipinta, o parti di datati indumenti; a volte compaiono gli strumenti stessi del dipingere, ormai dismessi, incastonati nell’opera, altre volte carte preziose, incise, stampate e poi ritagliate secondo la creatività dell’autore. Ogni frammento viene sapientemente recuperato, studiato, amato, e poi intessuto in una tela che segue il disegno dell’artista, ricomposto in un puzzle e rinato così a seconda esistenza. Questo gesto del recupero, oggi attuale quanto mai nelle sue valenze etiche ed estetiche, dà forma a mondi immaginifici in cui ogni elemento ha già un’esistenza autonoma, una storia da raccontare, più o meno recente che sia, alla quale si aggiunge l’ultima, quella che tutte le racchiude, quella a cui dà forma l’artista nel gesto stesso del creare e nella quale convivono tutte queste differenti narrazioni. Potremmo proprio interpretare così le opere di Cini: storie da narrare, incredibilmente trasversali e atemporali, artisticamente immortali. Ed infatti estrema rilevanza assume qui la scrittura, presente in numerosissimi lavori, che potrebbero quasi venire concepiti come atto grafico in sé. Proprio nell’opera scelta ad emblema della mostra, Lei, la parte grafica ha un’importanza fondamentale: la tela, anch’essa di recupero, divisa verticalmente da una stoffa d’epoca fissata con chiodi coevi, è riempita – eccetto che per un piccolo componimento di mano dell’autore – dagli appunti delle lezioni di storia dell’arte di una pedagogista, allora studentessa, dell’Ottocento. Si tratta quindi non solo di appunti d’arte, ma anche di appunti “di recupero”, che hanno una storia, e di questa storia rimangono sulla tela i segni materici: il colpo d’azzurro che si vede, ad esempio, è dato dall’inchiostro sciolto della penna stilografica di quei tempi. Sono opere espressioniste in cui c’è dentro tutto l’artista ed il mondo della scrittura che fa parte di lui; non a caso il percorso artistico di Cini si è “intrecciato” con quello altri importanti personaggi come Natalia Ginzburg, incontri tanto casuali, quanto pregni di significato, che hanno lasciato un segno indelebile e hanno plasmato irrimediabilmente la sua poetica. A riprova di ciò è il fatto che ogni opera è stata corredata da un haiku, composto in occasione della mostra: di origine giapponese, gli haiku sono componimenti di tre versi, che seguono una metrica ben precisa di unità vocali, legati l’uno all’altro, ma non consequenziali; sono immagini, poesie da cui scaturisce una sensazione non concettuale, razionale, non legata a un ragionamento, ma istintuale. È evidente dunque come l’opera è pertanto testimonianza di questa volontà specifica di unire la parola all’arte grafica.
Balza all’evidenza, dunque, il fil rouge che accomuna tutta la produzione artistica di Cini: c’è una sorta di trasversalità nel suo fare artistico, che accomuna tempi, luoghi, persone, storie diverse ma contemporanee, unendole nella loro attitudine all’universale. Sono incroci di tempo, che sono anche incroci di arte, di scelte e di pensieri, fusi, giocati, reinterpretati attraverso la poetica di un uomo dall’intelligenza tanto acuta quanto poliedrica. Ogni opera è un viaggio. Frammenti del passato si riaccendono e riprendono nuova vita diventando altro, sempre fedeli a se stessi, eppure diversi, riempiti di un significato nuovo, non privo di memoria. Ecco la genialità, una genialità sempre coerente, puntuale e mai banale, che dà vita ai mondi racchiusi nelle opere di Albero Cini.
Francesca Gualandi

Maria Cristina Pacelli

Maria Cristina Pacelli

7 maggio – 11 giugno
La mostra propone un excursus sull’ampia produzione di Maria Cristina Pacelli, artista toscana formatasi a Bologna, dove tutt’ora vive e lavora. Tutto il suo lavoro, dalle prime sino alle ultime opere, è incentrato sul rapporto tra scultura e psicologia del profondo: si parte sempre dallo studio della figura umana, rivisitata poi mediante il filtro dell’inconscio, in un viaggio di memoria junghiana attraverso il proprio vissuto e le proprie sensazioni, in modo tale che la materia diventi forma vivente e pulsante dell’interiorità, nell’inscindibile totalità di corpo e psiche. Le sculture sono realizzate in creta raku, gres scuro e chiaro, e poi patinate con ossidi e malte; accompagnano l’esposizione studi di nudo realizzati a carboncino e pastelli su carta da spolvero, poi intelati.

Ivo Stazio

Ivo Stazio

5 marzo – 2 aprile 2022
“Segno e luce, paesaggio ed emozione si fondono perfettamente in questi ritratti di città, dove il colore e la materia sono gli assoluti protagonisti. Scenari urbani, vivi e presenti, ora raccontati da una straordinaria capacità di astrazione, sembrano emergere dallo sfondo e venirci incontro, dapprima confusi e poi via via sempre più nitidi, presenti, per raccontarci un vissuto che è anche il nostro. Un tetto, una cupola, un vicolo, elementi reali che appartengono alla nostra quotidianità e che eppure percepiamo ora rinnovati, vengono investititi di un significato, di un’emozione. E quell’emozione, resa a volte magistralmente attraverso il colore, emerge altrove dalla materia stessa, dura, arrogante, greve, ruvida, che ci fa avvertire tutta la pesantezza del suo essere. Ecco l’incredibile Metropolis di Ivo Stazio”.

Wanda Benatti

Wanda Benatti

22 gennaio – 26 febbraio 2022
Amore senza confine. Amore infinito, sterminato, che riempie e travalica i confini del quadro stesso. Perché nelle opere di Wanda Benatti non c’è tempo e non c’è spazio. Solo amore. Dipinti singoli o costituenti delle serie, delle storie, delle emozioni raccontate un passo pittorico dopo l’altro, svelano il mondo e la sublime poetica di questa artista.

Dino Buffagni

Dino Buffagni

4-24 dicembre 2021
Il 4 dicembre apre la mostra di Dino Buffagni, artista poliedrico, che spazia dai pennelli alla macchina fotografica, utilizzando sapientemente tanto i colori a olio, quanto le elaborazioni digitali. Le sue opere, spesso costruite per contrapposizioni, ambientano elementi in una quotidianità allusiva, la cui storia prosegue volutamente altrove, al di là dei confini del quadro stesso. Ad arricchire l’immagine spuntano poi brevi componimenti poetici, che “non spiegano, non indirizzano, anzi, suggeriscono ulteriori, inaspettate prospettive” (Lucio Mazzi)(…)

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